mercoledì 24 giugno 2015

#14: Quella che va in America

Non riesco ad addormentarmi, cosa frequente nelle ultime notti, non so se sia per il fatto che mi alzo a mezzogiorno o se è perchè non riesco mai ad addormentarmi che mi alzo a mezzogiorno. Un po' come la storia dell'uovo e della gallina, non si saprà mai chi è nato prima. Probabilmente l'uovo perchè non credo che le galline possano nascere così, dal nulla. Ma perchè sto parlando di galline?
Comunque, è da un po' che volevo aggiornare, quindi per non sprecare il tempo a fissare il buio sopra di me eccomi qui a scrivere. La scuola è finalmente finita e con essa anche gli allenamenti di pallavolo. Come nella maggior parte dei casi "fine" significa anche "saluti" e, anche se spero non ancora definitivi, per me sono stati delle specie di addii. Sì insomma, fa strano dire a una persona che sei abituata vedere tutti i giorni -Ci vediamo l'anno prossimo-. Certamente le persone più importanti le vedo ancora adesso durante le vacanze e dovrei riuscire a rivedere ancora tutti almeno una volta prima di partire, but you never know.
Comunque è stato strano l'ultimo giorno di scuola quando, mezz'ora prima del suono dell'ultima campanella, uno alla volta i miei compagni di classe hanno iniziato a venire ad abbracciarmi e a salutarmi, facendomi promettere di rivederli prima di partire, quando alla pizzata di classe hanno brindato per me e quando, all'ultimo allenamento, le mie compagne di squadra mi sono letteralmente piombate addosso per stringermi in un abbraccio prima che me ne andassi. È stato strano anche voltarmi per un'ultima volta a vedere la mia scuola andando via, pensando che la prossima volta che vi metterò piede sarà tra un anno e un'estate.
È stato strano perchè in quei momenti non ho provato gioia o tristezza, mi sembrava che tutto fosse normale perchè ancora non ho realizzato davvero che potrebbe passare molto tempo prima che io riveda molte di quelle persone. Perchè io sono così, non sono una persona che piange agli addii, le lacrime iniziano a scendermi quando ormai mi trovo in auto o su un pullman o un treno o un aereo ed ormai è troppo tardi per gli addii, realizzo sempre troppo tardi.
Ho comprato la giacca blu, la data di partenza è stata fissata e finalmente tengo tra le mani quello che è il mio biglietto del volo, il countdown dice che mancano 65 giorni, otto ore e nove minuti prima che l'aereo su cui sarò ormai salita prenda il volo per Atlanta, quel fatidico 29 agosto in cui per la prima volta attraverserò l'oceano e dovrò orientarmi da sola nell'aeroporto di Atlanta dove farò scalo prima di ripartire per Minneapolis.
L'appuntamento al Consolato Americano per la richiesta del visto è stato fissato per il 31 di luglio.
Sono tutte cose talmente concrete che dovrei finalmente rendermi conto che tutto si sta avverando, che il 29 agosto io parto, parto! E invece proprio non ci riesco, ancora non riesco a rendermene conto.
Per tutti io adesso sono Quellachevainamerica, non Luisa. Quando i miei amici mi presentano a qualcuno, non scherzo, dicono: -Lei è Quellachevainamerica!-.
Tutti ne sembrano perfettamente consapevoli, tutti eccetto me. Mi sono sentita dire molte cose al riguardo, c'è chi mi dice che sono molto coraggiosa, chi mi dice che sono totalmente pazza, chi mi dice che sarà una bella esperienza. Chi devo ascoltare? Fosse hanno tutti ragione, forse nessuno. Ma che ne sanno loro? In fondo non sono loro a trovarsi nella mia situazione, perciò probabilmente dovrei ascoltare solo me stessa. Ma cosa penso io? Posso dire ad alta voce -Io parto- ma non me ne rendo davvero conto. Forse devo dirlo più forte, più convinta: -IO PARTO!-. Ma niente.
Un anno fa, proprio in questi giorni, ero una ragazza con un grande sogno che cercava di convincere i propri genitori e sperava, sperava tanto di poterlo avverare. Leggeva i blog di exchange student e pensava "voglio vivere anch'io tutto questo!". Oggi posso dire di aver avverato quel mio grande sogno. Vivrò in prima persona questa esperienza, non so se posso già definirmi un'exchange student ma senza dubbio lo sarò tra sessantacinque giorni.
Eppure tutto questo ancora non mi sembra vero. Si tratta davvero di me?